PSICOPEDAGOGIA DEI LINGUAGGI (BRIGANTI)
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Messaggio  rossella maria valeria vi Gio Gen 14, 2010 5:41 pm

È solo da pochi anni che la psicopatologia grave della fanciullezza viene studiata con l’attenzione e l’importanza che merita, in quanto depositaria di numerose informazioni sui meccanismi psicomentali legati allo sviluppo dell’individuo.
E’ infatti solo dal 1980, con la pubblicazione del DSM-III, che il disturbo autistico viene incluso in una classificazione diagnostica come entità clinica separata ed indipendente.
La parola "autismo" deriva dal greco "autús" che significa "se stesso” e, come malattia o modello particolare di struttura psichica, si evidenzia drammaticamente per l’isolamento, l’anestesia affettiva, la scomparsa dell’iniziativa, le difficoltà psico-motorie, il mancato sviluppo del linguaggio.Accanto a queste espressioni, di per se già disturbanti e fortemente disabilitanti, gli autistici dimostrano una importante incontinenza emotiva che si espleta con urla, corse , a volte aggressività, angoscia e terrore.
Con la pubblicazione del DSM-IV il disturbo autistico viene inserito fra i disturbi generalizzati dello sviluppo, cioè fra quei disturbi caratterizzati da una grave e generalizzata compromissione in diverse aree dello sviluppo.
L’inclusione dell’autismo in questa categoria diagnostica può essere meglio compresa ripercorrendo a ritroso la storia dei tentativi classificatori della psichiatria di fronte alla complessità e varietà del disagio mentale.
Ad inizio secolo per formulare una diagnosi di psicopatologia di un bambino oppure di un adolescente ci si avvaleva di schemi diagnostici pensati e sviluppati per soggetti adulti e basati su una categorizzazione tripartita della patologia mentale, che comprendeva: schizofrenia, malattie affettive e nevrosi.Il primo inquadramento diagnostico dei disturbi “psicotici” ad insorgenza molto precoce può essere attribuito a Krapelin, che aveva ricondotto tutti i casi di psicosi infantile al gruppo della demenza precoce.
Il termine autismo viene utilizzato per la prima volta nel 1908 da Eugen Bleuer (1857-1939), psichiatra svizzero tra i primi sostenitori dalla teoria psicoanalitica, per riferirsi ad una particolare forma di ritiro dal mondo, causata, comunque sempre, dalla schizofrenia.
Egli modificò, infatti, il concetto di schizofrenia individuandone un importante sintomo nel ritiro dalla vita sociale strutturata nel sé, come egli osservava negli adulti schizofrenici.
Secondo Bleuer (1908), l'autismo era caratterizzato da un restringimento delle relazioni con le persone e con il mondo esterno, così estremo da escludere qualsiasi cosa eccetto il SÈ proprio della persona.
Ma É solamente nel 1943 che Leo Kanner (psichiatra infantile) utilizzo il termine autismo per indicare una specifica sindrome da lui osservata in 11 bambini che chiamò autismo precoce infantile, e che ancora oggi, nella sua forma più classica, porta il suo nome.
Kanner descrisse i suoi pazienti come tendenti all’isolamento, autosufficienti, felicissimi se lasciati soli, “come in un guscio”, poco reattivi in ambito relazionale; la maggior parte di loro apparivano muti o con un linguaggio ecolalico, alcuni mostravano una caratteristicainversione pronominale (il “tu” per riferirsi a loro stessi e l’”io” per riferirsi all’altro), molti avevano una paura ossessiva che avvenisse qualche cambiamento nell’ambiente circostante, mentre altri presentavano specifiche abilità molto sviluppate (memoria di date, ricostruzione di puzzles, ecc.) accanto, però, ad un ritardo mentale generalizzato.
Kanner con lo studio degli undici bambini aveva ipotizzato "un'innata incapacità a comunicare" degli autistici quale causa di tale comportamento di chiusura.
Da tale prima ipotesi l'autore si allontanò negli anni seguenti.
Kanner e suoi collaboratori, partendo dall’analisi delle famiglie che si presentavano alla loro attenzione, fecero la deduzione avventata che i genitori (specie la mamma), troppo "freddi, distaccati e perfezionisti, privi di senso dell'umorismo e che trattavano le persone sulla base di una meccanizzazione dei rapporti umani", fossero, con il loro comportamento, la causa dell'autismo dei figli.
Kanner, però, non aveva tenuto conto che le famiglie che arrivavano alla sua attenzione non rappresentavano affatto la generalità delle famiglie con casi di autismo, ma solo una esigua parte di esse.
Dovevano passare più di trent'anni perché un ricercatore, Sanua, utilizzando una corretta metodologia statistica, potesse confutare la tesi del "genitore-frigorifero", "autismogeno". L’autore comunque, già prima degli studi di Sanua, aveva ritrattato la sua ipotesi, rivolgendo le proprie scuse ai genitori dei bambini autistici per averli ingiustamente colpevolizzati.
Kanner, parlando di autismo infantile, scrisse: "…fin dal 1938, é giunto alla nostra attenzione un numero di bambini le cui condizioni differiscono cosÏ marcatamente e unicamente da qualsiasi altra riportata finora, che ogni caso merita - e, spero, eventualmente riceverà - una dettagliata considerazione delle sue affascinanti particolarità" (Trad. da L. Kanner, 1943).
In questo modo, per la prima volta, venne definito un gruppo particolare di soggetti, affetti da una sindrome particolare. Kanner, diversamente da Bleuer, credeva che ”… questi bambini fossero giunti nel mondo con un’innata incapacità di formare il tipico contatto affettivo, biologicamente determinato, con le persone, proprio come altri bambini presentano innati handicap fisici o intellettuali".
Hans Asperger, quasi contemporaneamente a Kanner, ma indipendentemente da lui, tentò di definire un disturbo che interessava una determinata popolazione infantile con sintomatologia in gran parte simile a quella descritta da Kanner per i suoi soggetti, ma con capacità cognitive nettamente superiori.
Asperger ipotizzò che, alla base del disturbo dei propri soggetti, ci fosse un disturbo nel contatto allo stesso profondo livello dell'affetto e/o dell'istinto.
L’autore, come Kanner, sottolineò le difficoltà nell'adattamento sociale dei suoi pazienti e osservò i loro interessi isolati.
Entrambi diedero particolare attenzione alle stereotipie motorie o linguistiche di questi bambini, cosÏ come alla marcata resistenza al cambiamento; entrambi furono impressionati da occasionali e stupefacenti prestazioni intellettuali di questi soggetti, in aree però molto ristrette.
I soggetti di Asperger erano caratterizzati da una forma di pensiero concreto, dall’ossessione per alcuni argomenti, dall’eccellente memoria e spesso da modalità comportamentali e relazionali eccentriche.
I bambini affetti dalla Sindrome di Asperger possono diventare individui funzionanti ad alto livello, in grado di mantenere un lavoro, di essere ben inseriti nel contesto sociale e di vivere in maniera indipendente.
Asperger individuò però tre importanti aree nelle quali i suoi soggetti differivano da quelli di Kanner:
 
1.1linguaggio: i soggetti di Asperger avevano un eloquio scorrevole. Nei soggetti di Kanner, invece, non si aveva linguaggio o esso non era usato in maniera "comunicativa";
2.2.motricità: nella opinione di Kanner, i bambini risultavano "impacciati" solo rispetto a compiti di motricità complessa; secondo Asperger essi lo erano in entrambi, motricità complessa e fine
3.3.capacità di apprendere: Kanner pensava che i bambini mostrassero prestazioni più elevate quando apprendevano in maniera meccanica, quasi automatica; Asperger li descriveva invece come "pensatori astratti".
 
Nell'idea di Asperger e di Kanner ci si trovava di fronte, fin dalla nascita, a un disturbo importante che implicava problemi estremamente caratteristici.
Alla fine si configurarono due quadri diagnostici differenti: l'autismo di Kanner e la Sindrome di Asperger.
Nel ventennio successivo alle osservazioni di Kanner, anche grazie all'impostazione teorica di quest'ultimo, furono le teorie psicodinamiche il principale punto di riferimento nello studio dell'autismo.
Gli autori di impostazione psicodinamica indirizzarono i loro sforzi per indagare la possibilità che la sindrome autistica fosse dovuta ad una alterazione del rapporto madre-bambino.
Bettelheim (1967) fu uno dei primi autori a interessarsi a questo argomento sviluppando il concetto di “madre frigorifero” per descrivere un tipo di rapporto caratterizzato da carenza di contatto fisico, pratiche alimentari anomale, difficoltà nel linguaggio e/o nel contatto oculare con il figlio.
Nell’ottica dell’autore il bambino, percependo nella madre un desiderio (reale o immaginario) di annullarlo, verrebbe colto dalla paura di annientamento da parte del mondo, dal momento che questo é rappresentato proprio dalla madre, dalla quale si difenderebbe proprio con l'autismo.
L'autismo sarebbe perciò, in quest'ottica, un meccanismo di difesa.
Pur restando sempre alla base del modello psicodinamico, questo concetto subì delle modifiche in relazione ai sempre crescenti indizi che sembravano implicare un substrato biologico nella sindrome.
Già nel 1959 Goldstein propose di considerare l'autismo come un meccanismo di difesa secondario ad un deficit organico, '…'espressione di meccanismi di difesa messi in atto passivamente allo scopo di salvaguardare l'esistenza del malato in situazioni di pericolo e di angoscia insopportabili'' (1959).
A partire dagli anni '60 però le critiche al modello psicodinamico, accusato di colpevolizzare ingiustamente i genitori, si fanno sempre più forti.
I genitori di bambini con autismo infatti non mostravano tratti patologici o di personalità significativamente diversi da quelli di bambini non affetti.
Il primo autore a sostenere in modo sistematico che la causa della sindrome autistica non fossero i genitori, ma che il disturbo avesse una base organica É stato Rimland; per l’autore, infatti, l’autismo era causato da alterazioni morfologiche e funzionali a base organica.
Ne scaturì l'approccio organicista, che cercava d'individuare alterazioni organiche alla base della sindrome.
Nonostante la varietà di elementi raccolti congruenti con quest'ipotesi, non ne é stato ancora isolato uno in particolare che possa essere considerato come caratteristico di tutte le forme di autismo, tanto che attualmente si é portati a credere che non esista un ''unico autismo'', ma che in questa categoria siano invece comprese diverse patologie e manifestazioni sintomatiche provocate da diverse cause organiche.
Negli anni settanta M. Rutter (1978) specificò ulteriormente il quadro descritto da Kanner, individuando, attraverso uno studio comparato di bambini autistici e bambini con altri tipi di disturbo, alcuni sintomi tipici dell'autismo infantile.
Questi comprendono: un’incapacità a sviluppare rapporti sociali, una particolare forma di ritardo nello sviluppo del linguaggio con presenza di ecolalia e inversione pronominale e vari fenomeni rituali e compulsivi.
Rutter, inoltre, sottolinea che circa i tre quarti dei bambini con autismo hanno anche un ritardo mentale.
Sul finire degli anni '80 fu proposto anche un modello cognitivo basato sulla teoria della mente, proposta da Uta Frith.
L’autrice ipotizza che nell'autismo la disfunzione cognitiva da cui deriverebbero gli altri sintomi consista in un'incapacità di rendersi conto del pensiero altrui, sarebbe, cioé, carente o assente proprio la teoria della mente.
Nel 1979 Wing e Gould distinsero tre diverse tipologie di persone affette da autismo: gli isolati, abbastanza simili ai pazienti descritti da Kanner; i passivi, soprattutto neiconfronti dell' ambiente circostante; e i bizzarri, socialmente attivi, ma con comportamenti incongruenti e inconsueti.
Da uno studio degli stessi autori (1979) é emerso che disturbi della socializzazione, della comunicazione e dell'immaginazione hanno la tendenza ad apparire insieme piuttosto che in maniera isolata.
Dal momento che questa caratteristica é particolarmente evidente nell'autismo, da allora si preferì diagnosticarlo in base a queste tre aree sintomatiche. Il concetto di autismo ha dunque subito nel corso di mezzo secolo notevoli modifiche, come il passaggio da un'unica sindrome, che poteva variare lungo un continuum di gravità crescente, ad uno spettro di disturbi indicante manifestazioni di sintomi molto diverse.
Nelle classificazioni successive a quella di Kanner sembra intravedersi il tentativo di svincolarsi dalla sua classificazione e di abbandonare cosÏ la concezione che vede l’autismo inserito nel gruppo delle schizofrenie.
Nella nuova classificazione internazionale, infatti, l'autismo é compreso nei disturbi dello sviluppo, con una componente organica altamente probabile, anche se non ancora individuata con sicurezza.
Definire l’autimo come un disturbo generalizzato dello sviluppo, permette in ogni caso di“sdrammatizzare” l’ineluttabilità della malattia e di focalizzare l’attenzione sulla compromissione del processo di crescita del bambino, senza sviluppare vissuti di cronicità, impotenza e immodificabilità, che desta una diagnosi quale quella di schizofrenia
Data l'alta variabilità delle manifestazioni comportamentali ad esso associate, la classificazione del disturbo é divenuta sempre più generale.
LA FAMIGLIA
La famiglia del bambino affetto da autismo si trova a dover affrontare una situazione più stressante di qualunque altra famiglia di bambino handicappato, a causa della scarsa conoscenza delle caratteristiche della sindrome non solo nella gente comune, ma spesso purtroppo anche d a parte di professionisti, terapeuti e insegnanti.
L’errata interpretazione risalente agli anni ‘50 e ‘60 della sindrome autistica come disturbo emotivo imputabile ad un errato rapporto del bambino con la madre o entrambi i genitori è infatti dura a morire malgrado le inequivocabili evidenze di danno biologico e l’attuale interpretazione ufficiale dell’autismo come disturbo generalizzato dello sviluppo, in parte anche per la difficoltà della famiglia stessa a d accettare che un bambino apparentemente perfetto, spesso bellissimo, sia portatore di un grave handicap mentale che lo accompagnerà per tutta la vita: meglio sperare di aver sbagliato qualcosa, e che cambiando il proprio atteggiamento tutto tornerà normale.
Ben presto tuttavia la disillusione si farà strada con il suo carico di disperazione e solitudine di fronte a un problema senza via d’uscita, aggravato spesso dall’incomprensione di parenti, amici e perfino dei professionisti cui ci si rivolge per chiedere aiuto ad alleviare le evidenti sofferenze del bambino e la propria inadeguatezza nell’affrontare le difficoltà del vivere quotidiano.
Le peculiarità della sindrome, e non viceversa, rendono infatti difficile e doloroso il rapporto della famiglia con il proprio bambino, e costituiscono una fonte aggiuntiva di stress che spessom minaccia la sopravvivenza dell'unità familiare.

LE PRINCIPALI FONTI DI STRESS PER LA FAMIGLIA DEL BAMBINO AUTISTICO.

Vera o apparente che sia, l’indifferenza del bambino autistico verso i familiari che già hanno investito amore e dedizione sulla loro creatura apparentemente perfetta costituisce precocemente una vera tragedia affettiva: i genitori si sentono rifiutati da un bambino che non corrisponde ai loro sentimenti e che tuttavia non possono nè vogliono lasciare.
Non tutti i bambini autistici sono incapaci di dimostrare affetto verso i familiari: alcuni, considerati in passato in come affetti da Psicosi Simbiotica, possono mostrare un attaccamento perfino eccessivo.
Tuttavia anche in questo caso, pur meno drammatico, il senso di responsabilità verso una creatura che capiscono indifesa di fronte al mondo e di cui ben presto intuiscono la sofferenza li sprona a cercare in tutti i modi di aiutarla, senza riuscire a tradurre l’attaccamento affettivo in partecipazione emotiva alla vita di famiglia o in apprendimento.

Problemi di comportamento.

La vita familiare è ben presto sconvolta dai problemi di comportamento tipici del bambino autistico, soprattutto dagli episodi di auto o etero aggressività: nulla è più doloroso che assistere impotenti al dramma del bambino che si morde, si graffia a sangue, si picchia o batte la testa contro il muro, o che, portato con il cuore colmo di speranza tra i suoi coetanei li allontana a morsi e calci.La paura e l’angoscia che generano questi episodi apparentemente incomprensibili portano spesso alla rinuncia di una qualunque regola o coerenza educativa, precipitando ancor di più il bambino nell’incertezza e la famiglia nell’isolamento sociale.
Anche problemi di comportamento meno gravi, come pianto o riso irrefrenabili e apparentemente immotivati, grida o lancio di oggetti, e così via generano sconcerto e angoscia, e contribuiscono fatalmente all’isolamento sociale del bambino e dell’intera famiglia.

Incomprensione sociale

Le stranezze del comportamento del bambino autistico nel migliore dei casi vengono interpretate nell’ambito sociale come espressioni di maleducazione di cui il genitore è responsabile; anche la famiglia più unita e agguerrita si trova così a dover affrontare, oltre alle difficoltà di convivenza col proprio bambino, il giudizio, le critiche e l’insofferenza di vicini, parenti e amici della cui solidarietà avrebbero invece enormemente bisogno.
Per lo più tuttavia la gente comune conosce dell’autismo la credenza errata che il comportamento autistico sia imputabile al cattivo rapporto con la madre; anche nella famiglia più consapevole e più preparata si insinua il dubbio, si rimugina il passato, e il senso di colpa logora la coppia e peggiora fatalmente il già difficile rapporto con il bambino.
Ancora più drammatica è l’incomprensione che spesso la famiglia incontra al momento dell’inserimento del bambino nella scuola materna e più tardi nella scuola dell’obbligo: ì pregiudizi sull’autismo e la scarsa preparazione in materia degli insegnanti, la scarsa disponibilità a collaborare o l’ignoranza da parte delle strutture sanitarie ne fanno ben presto un piccolo intruso da tollerare per il minor tempo possibile, accampando ogni scusa per ridurre il tempo di frequenza scolastica.
La fonte principale di stress per la famiglia non è più l’isolamento o il comportamento del bambino, ma il rifiuto sociale: i genitori stessi si sentono rifiutati nel loro bambino, ancora una volta soli contro tutti.

Incertezza per il futuro.

Quand’anche la famiglia abbia superato la fase della disperazione, e sia stata correttamente informata sulle cause e le caratteristiche della sindrome autistica, resta tuttavia perennemente angosciata dall’incertezza per il futuro del proprio bambino, e non solo dallo spaventoso ma ancora relativamente lontano momento della vecchiaia e della morte ("chi si occuperà di lui, chi lo capirà quando noi non ci saremo più?"), ma anche dal futuro più prossimo ( "sarà accettato a scuola? avrà un insegnante preparato? otterrà le ore di sostegno necessarie a svolgere un programma speciale? ") o addirittura dell’indomani ("andrà tutto bene o mi chiameranno ancora una volta d a scuola pregandomi di portarlo a casa?").
Quando poi si sia raggiunta una vera consapevolezza sulla gravità della sindrome autistica, e sull’inesistenza di soluzioni dignitose per il futuro di un adulto affetto da autismo, lo stress diventa disperazione, e non esiste genitore di bambino autistico che non speri di poter sopravvivere al proprio figlio pur di non doverlo abbandonare ad un futuro di emarginazione, con un ulteriore carico di sensi di colpa e di impotenza.

Fatica e impossibilità a svolgere una vita normale.

La vita con un bambino autistico è estremamente faticosa: spesso ai problemi di comportamento, difficili da gestire, si aggiungono iperattività, problemi di sonno e di alimentazione.
L’iperattività del bambino, per lo più inconsapevole del pericolo, non dà tregua, e spesso la casa diventa una prigione spoglia in cui barricarsi, porte e finestre sbarrate da chiusure di sicurezza, ogni oggetto fragile ancora integro fatto sparire, cibo e bevande lontano dalla portata del bambino; e ancora restano da sorvegliare rubinetti, fornelli e così via, neanche uscire di casa dà tregua: una passeggiata al parco si trasforma facilmente in un inseguimento affannoso e un attimo di distrazione può essere fatale.
Tuttavia neanche il genitore di un bambino tranquillo riesce a darsi pace: il suo isolamento, il vederlo passare ore a guardarsi le mani o giocherellare con uno spago lo angoscia, lo sprona a cercare di coinvolgerlo in giochi o attività domestiche, per lo più ricavandone ansia e frustrazione.
Non esistono vacanze per la famiglia di un bambino autistico, ammalarsi è un lusso, riposarsi impossibile; la fatica è schiacciante, e i rapporti familiari ne sono ben presto incrinati.
La madre, per mancanza di aiuti adeguati, deve per lo più rinunciare al lavoro.
La fatale conseguenza di tutte queste difficoltà è l’isolamento sociale della famiglia e del bambino stesso, a dispetto di una legge quadro che dovrebbe garantirel’integrazione sociale della persona handicappata.

POSSIBILI INTERVENTI SULLA FAMIGLIA

La famiglia è il primo ambiente sociale in cui ogni bambino si trova a vivere: l’integrazione nella vita di famiglia è perciò il primo scopo d a perseguire in un programma di riabilitazione e integrazione della persona autistica.Aiutare il bambino a sviluppare capacità interessi e relazioni nell’ambito familiare si traduce in un miglioramento della vita presente e futura della famiglia e del bambino stesso: il benessere dell’uno è indissolubile da quello dell’altra.
Nessun genitore può assistere passivamente allo sviluppo del proprio bambino; un programma di intervento dovrebbe non solo essere preparato tenendo conto della conoscenza profonda che ogni famiglia h a del proprio figlio, delle esigenze e dello stile di vita familiari, ma anche prevedere una partecipazione della famiglia stessa come partner essenziale nella preparazione ed esecuzione del progetto.A questo scopo sarebbe opportuno offrire alla famiglia un supporto individualizzato a partire dai suoi bisogni e dalle sue potenzialità.

FORME DI SUPPORTO ALLA FAMIGLIA

1) Informazione.

Una corretta informazione sulle caratteristiche della sindrome autistica è il primo passo per aiutare i genitori a comprendere e affrontare efficacemente i problemi del loro bambino.Colpevolizzare la madre o anche solo tacere su un dubbio che la diagnosi stessa può portare con sè è inaccettabile, sgombrare il campo da sensi di colpa assurdi e anacronistici é doveroso e non può che tradursi in u n miglioramento dei rapporti familiari e conseguentemente in un a maggiore serenità del bambino stesso.Tuttavia accettare l’idea dell’handicap del proprio bambino, quando si era sperato di poter cambiare tutto semplicemente cambiando se stessi, può essere traumatizzante, e soprattutto la comunicazione di alcune caratteristiche utili più che altro come strumenti operativi, in particolare della coesistenza di ritardo mentale, può essere percepito negativamente in consonanza col senso comune, e difficile da accettare se non si ha ben chiara la differenza fra capacità, intelligenza e sensibilità, e il rispetto dovuto in ogni caso ad ogni persona umana.

2) Formazione e addestramento.

"Il bambino non mi guarda, non mi obbedisce, si comporta come se neanche esistessi o addirittura sembra burlarsi di noi. Come dobbiamo comportarci con lui?"
A questa domanda molti professionisti rispondono "Fate semplicemente i genitori".
Ma "fare i genitori" di un bambino autistico non è affatto semplice, s e non si viene messi a conoscenza su come è possibile ottenere attenzione e collaborazione, e se non si sanno affrontare nel modo giusto i problemi di comportamento, oggi interpretati come espressione dell’incapacità ad esprimere i propri bisogni e desideri.La famiglia, si vede quindi costretta ad informarsi autonomamente e rischia di perdersi in una miriade di informazioni e tentativi, mentre dovrebbe essere adeguatamente preparata ad intervenire efficacemente nell’educazione del proprio figlio, e ad adottare altre forme di comunicazione, attraverso la preparazione congiunta da parte di professionisti e familiari di un programma da svolgere a casa con l’aiuto di controlli periodici, o almeno tempestivamente e costantemente informata delle modalità degli apprendimenti raggiunti al di fuori dell’ambito familiare.Un intervento attivo della famiglia nel campo della autonomie di base e della comunicazione permetterebbe di dedicare più tempo nell’ambito extrafamiliare ad interventi di altro tipo ( rieducazione in campo motorio e cognitivo).
Il coinvolgimento attivo della famiglia in un adeguato programma riabilitativo rappresenta inoltre l’aiuto più efficace a superare sensi di colpa e di inadeguatezza: attraverso il ruolo di partner di educatori e insegnanti i genitori si appropriano degli strumenti indispensabili per svolgere il proprio ruolo e riacquistano fiducia nelle proprie capacità.

3) Pianificazione e assistenza

L’angoscia della famiglia per l’incertezza del futuro del proprio bambino dovrebbe essere alleviata da una precoce programmazione del suo futuro: sapere che il bambino frequenterà una scuola materna e una scuola dell’obbligo come tutti gli altri bambini, seguito da persone competenti, prontamente disponibili e il più possibile stabili, realmente interessate al problema e motivate ad intervenire all’unisono con i familiari per sviluppare al massimo le potenzialità del bambino può rappresentare un enorme sollievo.La formazione di personale sanitario e scolastico competente è perciò u n aiuto indispensabile non solo per il bambino, ma anche per la famiglia.Resta purtroppo per ora irrisolto il problema della vita da adulto della persona autistica, e sarebbe doveroso fin dall’infanzia del bambino prospettare soluzioni dignitose e qualificate in vista del venir meno dell’aiuto familiare.Accettare un figlio handicappato ma con una strada futura già delineata sarebbe assai più facile e certamente la qualità della vita familiare n e sarebbe molto migliorata.

4) Coordinamento dei servizi

Benchè la legge quadro sull’handicap preveda che tutte le istituzioni ( sanità, scuola, assistenza) debbano farsi carico dell’integrazione della persona handicappata, nella realtà spesso ognuna interviene in modo autonomo non sempre coerente, e la famiglia deve farsi carico di sollecitare incontri o trovare attività di tempo libero.I bambini autistici si possono ammalare come tutti gli altri bambini, m a anche le necessità sanitarie costituiscono un problema per la famiglia della persona autistica, per la difficoltà diagnostica da parte di medici che non conoscano l’handicap o per la mancanza di strutture ospedaliere attrezzate per operare su questi soggetti: allo stress della malattia si aggiunge quindi l’ansia di trovare un intervento adeguato.Sarebbe quindi opportuno individuare un responsabile che garantisca la coerenza degli interventi educativi in un programma globale, e individui in caso di necessità i professionisti e le strutture più adatte ad intervenire in caso di malattia.

5) Aiuto sociale ed emotivo.

La famiglia del bambino dovrebbe essere aiutata a mantenere il più possibile il tipo di vita e la relazioni sociali precedenti alla nascita del bambino autistico: questo significa poter disporre dell’aiuto di personale competente che permetta ai genitori di disporre del tempo per coltivare relazioni sociali e alla madre di conservare il posto di lavoro messo seriamente in pericolo dalla mancanza di una presa in carico efficace del bambino.
In ogni caso la famiglia ha bisogno di spazi di libertà: infatti non bisogna dimenticare che anche i fratelli del bambino autistico hanno diritto alle cure dei genitori, che come in tutte le altre famiglie possono intervenire malattie o doveri di assistenza verso i parenti anziani, e che il bambino autistico non deve essere il fulcro, ma uno dei componenti della famiglia. Anche la vita di coppia deve poter essere coltivata, e nell’ambito del programma individualizzato del bambino sarebbe opportuno prevedere brevi periodi di vacanza in un ambiente adeguato e preparato in modo da garantire il giusto riposo necessario alla famiglia per "ricaricarsi" e trovare nuove energie per affrontare la vita quotidiana.
La solidarietà e la comprensione che si possono trovere nell’ambito delle Associazioni dei familiari non dovrebbero sostituirsi alla possibilità di mantenere relazioni e interessi al di fuori del problema autismo, per non diventare una ulteriore fonte di emarginazione della famiglia.Un aiuto concreto a mantenere la vita di relazione, una prospettiva dignitosa seppur impegnativa per il futuro, una chiara dimostrazione di fiducia da parte degli operatori, la disponibilità ad una accoglienza competente e serena da parte della strutture preposte all’inserimento sociale della persona autistica costituiscono inoltre il più valido aiuto emotivo per la famiglia.

RIFLESSIONI

Non è facile far capire, a chi nn ha conoscenza diretta, quali siano i problemi che quotidianamente si debbano affrontare con i ragazzi che contrappongono ad una apparente "normalità" d'aspetto una così grave compromissione delle facoltà relazionali.
Può sembrare ovvio, ma quando si vive in condizioni di difficoltà come accade per le famiglie con ragazzi autistici,anche i piccoli intoppi di procedure e di burocrazia minano le cndizioni di equilibrio difficilmente raggiunta:occorrerebbe grande sensibilità e senso di responsabilitàda parte di tutti gli operatori coinvolti ni servizi sociali ,nelle strutture sanitarie di base,nel mondo della scuola, mentre invece troppo spesso si trattano tali" casi" con molta superficialità.Tanto è stato fatto nella direzione dell'integrazione, soprattutto nella scuola, ma il cammino è ancora lungo,quando ci si ritrova quotidianamente davanti a pregiudizi,ignoranza , paura del diverso. E' necessario un ulteriore passo:arrivare alla cultura dei diritti, al riconoscimento delle singole individualità, alla pienezze delle possibilità offerte a ciascuno dei ragazzi per affermarsi.Occorre lavorare per offrire a tutti la possibilità di "comunicare",ciascuno a suo modo e secondo le proprie capacità.E' disarmante dover assistere alla condizione di un soggetto autistico con una inabilità nel campo della comunicazione, laadove oggi la comunicazione è qualcosa che pervade la società in ogni aspetto:si vive assediati da comunicatori che troppo spesso non trasmettono contenuti. I soggetti autistici hanno invece grandi ricchezze e grandi contenuti da offrire in termini di emozioni, sentimenti:essi stessi possono essere una ricchezza purchè sussista una costante attitudine all'ascolto e alla capacità di porsi in discussione.

www.autismoonline.it
"famiglia e autismo";
"Storia sull'autismo",Riccardo Grassi.

rossella maria valeria vi

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